ovvero come dare la colpa agli altri pensando di avere ragione.
Fu così che, per sfuggire alla sensazione amara di chi si sente comunque e a prescindere fuori luogo, ho lasciato di fretta e furia un biglietto sul tavolo della cucina di casa, durante un’anonima domenica pomeriggio, con scritto:” vado a raccogliere le pesche”.
Non un riferimento su dove fossero ‘ste pesche, un numero di telefono dove potermi chiamare, una spiegazione che giustificasse una vera e propria fuga. Ho lasciato nel dolore e nello sbigottimento due anime candide la cui unica “colpa” era stata, ai miei occhi prevenuti, essere prive di ambizioni. Le ho lasciate lì, davanti a un biglietto assurdo, a chiedersi cosa avessero mai fatto di male per meritarsi un simile trattamento dalla loro unica figlia. Ovviamente la storia delle pesche era una balla gigantesca; in realtà non le mai viste le pesche neanche da lontano: ho mentito a mio padre e a mia madre per paura, per abitudine, perché con loro non avevo imparato a dialogare bensì a mentire continuamente, a mentire su tutto. Avevo imparato ad accusare trovando sempre un colpevole – che non fossi io- alla mia vita non vissuta.
La felicità, per sua natura, più la insegui e più lei scappa. Ovviamente, non è bastato fuggire da casa, non è bastato essere lontana dalle “sgrinfie materne”, dalla puzza della città, da una vita che non sentivo mia, dai ricordi dolorosi, dalle negazioni, dagli errori, dai fraintendimenti, no non è bastato chiudere quella porta. Dentro me, nonostante la lontananza fisica, c’era la stessa persona chiusa, ferita, condizionata nel bene e nel male da tutto ciò che chiamavo unicamente Torino, a cui davo tutta la responsabilità del mio mal di vivere.